L’introduzione da parte della Bce di una rete di protezione per le banche europee che faticano a finanziarsi in dollari rappresenta uno di quegli interventi di carattere tecnico la cui rilevanza sfugge probabilmente al risparmiatore. Ma è proprio da decisioni come quella adottata ieri che potrebbero scaturire conseguenze importanti per un mercato, quello dei mutui e dei prestiti, che in fondo riguarda tutte le famiglie e le imprese italiane.
Il costo del «funding», cioè il prezzo che si paga per raccogliere denaro a medio e lungo termine, è uno dei nodi più spinosi per le banche italiane di questi tempi. Non è un mistero che, di riflesso a rallentamento economico del nostro Paese e soprattutto alla crisi del debito pubblico, gli istituti di credito siano costretti a pagare di più per ricevere i finanziamenti che servono a svolgere le proprie attività. Esiste purtroppo una relazione diretta fra lo spread BTp-Bund e il tasso di interesse maggiorato che le banche di casa nostra devono offrire per piazzare i propri bond agli investitori e le recenti emissioni lo dimostrano.
Il problema è che questa sorta di sovrapprezzo legato al «rischio Paese» le banche stanno iniziando a riversarlo sulla clientela secondo una regola che può far storcere il naso, ma che in fondo risponde ai principi di base dell’economia: ciò che si temeva da mesi (e di cui Il Sole 24Ore è stato purtroppo facile profeta) si sta insomma avverando. Se si confrontano le offerte sui finanziamenti casa presenti sul sito del broker Mutuionline a giugno e quelle di ieri si nota (vedi la tabella sotto) un aumento dello spread (cioè del ricarico che le banche applicano sui tassi di base, Euribor e Irs) attorno ai 10 centesimi, o punti base, sul tasso variabile e ai 30 centesimi sul fisso. Per i prodotti venduti allo sportello, se possibile, il rincaro è ancora più significativo anche se più difficile da quantificare perché le condizioni sono meno standardizzate.
Si tratta, è bene ricordarlo, di un aspetto che influenza i prodotti di nuova erogazione e non il portafoglio di chi il peso di un mutuo ce l’ha già sulle spalle (a meno che non intenda cambiarlo attraverso una surroga o una sostituzione). Ma è comunque un fenomeno da non sottovalutare, così come non si deve ignorare un altro contraccolpo delle difficoltà della raccolta del denaro sul mercato interbancario: «Molte banche stanno ritirando alcune tipologie di prodotto o praticano su di essi condizioni talmente penalizzanti da farli uscire dal mercato», sottolinea Stefano Rossini, a.d. di MutuiSupermarket.it.
Il pensiero immediato va ai prodotti a tasso fisso, che adesso potrebbero paradossalmente tornare particolarmente appetibili per la clientela (l’Irs è tornato quasi ai livelli minimi di un anno fa) e sui quali guardacaso si concentra il caro-spread. Ma il problema è addirittura più esteso, perché alcune banche stanno di fatto rinunciando a erogare finanziamenti perché per loro sono poco remunerativi e forse eccessivamente rischiosi. Sui mutui per le famiglie l’offerta e la concorrenza sono tali (e vi sono anche istituti sostenuti da banche estere, che non incontrano gli stessi problemi sul funding delle nostre) che il mercato si muoverà sempre, ma sui prestiti alle imprese il discorso è purtroppo più complesso e il «credit crunch» è uno spettro sempre difficile da scacciare.
Proprio per questo l’intervento di ieri della Bce, che magari non riguarderà neanche direttamente gli istituti finanziari di casa nostra, può rappresentare un segnale importante: il fatto che Francoforte sia disposta a difendere a oltranza le banche dell’eurosistema potrebbe riportare a medio termine il sereno sull’intero mercato interbancario e alleviare in qualche modo il «dazio» pagato dalle italiane. Gli spread sui mutui forse non diminuiranno, di sicuro non torneranno ai livelli pre-Lehman. Ma anche arrestare la loro crescita sarebbe un risultato da non disprezzare.